Di’ ciao, Bernadette. Saluta le stelle. Apro gli occhi e una risacca di spilli e aghi luccicanti irrompe su un’alba ribaltata. Lei sembra sussurrare dentro un argenteo megafono di cellophan. Le parole lasciano scie sgranate color rugiada. Un riverbero chimico, sgraziato ma rilassante. Non c’è pace di questi tempi, penso. Ma l’umidità e la trascuratezza di questo verde campo di grano fanno da culla ideale ai miei arti e ai miei pensieri. Una sorta di anestesia totale dei sensi. Non sento niente. Niente. In mezzo a questo oceano di spighe, alte quasi mezzo metro. Glynis, sdraiata vicina a me – se alla mia destra o sinistra, se dentro o fuori di me, non saprei – racconta di fiabe e viaggi, di astronavi e caverne. Vocali e consonanti che come batuffoli di cotone intrisi di acetone detergono il mondo intorno. Improvvisamente il suo profumo di vaniglia e lampone sbreccia il mio scudo di organza centrando il bersaglio. Mi volto e avvicinandomi le bacio gli occhi, quegli occhi stellanti. Lei grida sottovoce che ha cuciture sul cuore, e lì desidererebbe che lenissi con la mia lingua. Mi sento come un insetto posato su un filo d’erba in giugno… Attendo giorni peggiori.