Massimo Volume: intervista a Emidio Clementi

(Questa è l’integrale dell’intervista uscita sul Mucchio n. 675 di ottobre. Vale la pena leggerla tutta perché Emidio Clementi si sofferma parecchio sui testi rivelando anche uno scoop riguardante Manuel Agnelli – domanda n. 16 – che per motivi di spazio non è potuto esser pubblicato sul Mucchio. E poi perché soprattutto Cattive abitudini è un gran bel disco. Ecco. Buona lettura)
Andrea Provinciali

Sono passati ben undici anni dall’ultima uscita discografica (Club Privé) dei Massimo Volume. Inevitabile quindi non pensare a Cattive abitudine come all’album italiano più atteso del 2010. Anche perché la band ha paradossalmente guadagnato l’apice della considerazione proprio dopo il suo scioglimento, caratterizzata da un’attenzione da parte del pubblico sempre più crescente in questo primo decennio del nuovo Millennio. Proprio la celebrazione live della reunion del gruppo avvenuta nel 2008 ha fatto da cartina di tornasole di quanto i Massimo Volume siano amati e di quanto abbiano influenzato e continuino a farlo la scena musicale italiana. È un Emidio Clementi quanto mai rilassato quello che raggiungiamo telefonicamente in una tarda mattinata di uno splendete giorno settembrino, nonostante le due imminenti nascite che lo vedranno “padre”. La prima, decisamente più importante e privata, relativa al secondo figlio in arrivo; la seconda, artistica, si chiama Cattive abitudini e rappresenta il motivo della nostra chiacchierata.

1) Rileggendo la tua ultima intervista pubblicata sul Mucchio di gennaio 2009 (n. 654), ovvero poco meno di due anni fa nel bel mezzo dell’esibizioni live per le quali avete rimesso in piedi la band, sono quanto mai significative oggi le parole che rilasciasti in risposta alla domanda se ci sarebbe stato un nuovo album in vista: “La mia paura sui Massimo Volume (premesso che il tour sta andando al di là delle nostre aspettative, spesso non riusciamo a finire una canzone che siamo sommersi dagli applausi) è che la gente voglia solo questo. Sarà dura presentarsi con un lavoro nuovo. Lì si vedrà cosa succede, per davvero”. Ecco a pochi giorni dall’uscita di Cattive abitudine avverti ancora questa paura?
No, no. In parte perché dal vivo un po’ l’abbiamo già testato suonando alcuni dei brani nuovi e mi sembra che abbiano avuto una buona risposta. E poi perché – sicuramente sono di parte – credo che abbiamo fatto un buon lavoro. Quindi no, non ho più tanto quella paura, anche se nel momento – dicevo la verità – in cui siamo tornati in pista e abbiamo ricominciato con le date è chiaro che la gente volesse quello da noi. Adesso da parte nostra c’è sicuramente voglio di tornare a suonare, di fare una tournée che sia uno spettacolo se non completamente nuovo almeno in gran parte.

2) Quali sono state le prime sensazioni provate dinnanzi al disco finito? Siete rimasti contenti del risultato?
Sì assolutamente. Poi sai, adesso riesco ad avere un’obiettività maggiore perché è passato un po’ di tempo dalla registrazione e quindi è vero che i suoni si sono sedimentati e riesco ad avere un ascolto d’insieme maggiore. Ma è anche vero che appena finito, avendo registrato in presa diretta in analogico e non avendo dunque la possibilità di tornare sulle singole tracce, all’inizio lo sentivo pieno di imprecisioni e di cose che avrei voluto rifare, adesso mi sono rasserenato.

3) Dopo esservi riuniti inseguito alla proposta di suonare dal vivo al Traffic nel 2008, quando, come e perché avete capito che era arrivato il momento giusto per fare un album nuovo?
Non c’è stato un momento in particolare. Però sicuramente ha significato molto la sonorizzazione de La caduta della casa degli Husher: è stato un lavoro completamente inedito e dopo otto anni ci siamo ritrovati bene tra di noi. È stato tutto piuttosto semplice e quindi visto che avevamo già fatto cinquanta minuti di musica in funzione del film abbiamo capito che potevamo anche scrivere un disco nuovo. Cattive abitudini è stato scritto in due tranche, è stato piuttosto veloce perché una parte dei pezzi li abbiamo composti tra aprile e giugno dell’anno scorso (2009), poi siamo tornati in tour e poi l’altra parte è stata composta proprio a ridosso delle registrazioni tra marzo e giugno di quest’anno (2010). Sicuramente è meno meditato degli altri, siamo ritornati poco sui pezzi.
Alcuni brani – ti parlo ad esempio di Mi piacerebbe ogni tanto averti qui, In un mondo dopo il mondo, Coney Island ma anche la stessa Robert Lowell – sono rimasti proprio come le prime versioni buttate giù, non ci sono state grosse modifiche.

4) Com’è stato tornare a scrivere, suonare e registrare per i Massimo Volume dopo ben 11 anni dalla vostra ultima fatica Club privé?
Sai, l’ho anche dato da un’altra parte, è stato un po’ come tornare a casa dopo un lungo viaggio e avere la percezione di non essere mai andato via. Per cui è stato tutto piuttosto semplice, anche perché ci conosciamo molto bene sia umanamente sia come musicisti, c’è una forma di linguaggio condiviso tra di noi. In più Stefano Pilia (il nuovo chitarrista) si è inserito molto bene, lui già conosceva i pezzi del nostro repertorio però nel momento creativo è stato molto bravo ad adattarsi psicologicamente a quelle che sono le nostre dinamiche di gruppo, impreziosendo il tutto con il suo stile. Che è uno stile anche eclettico, però a livello di arrangiamento ha capito subito qual era la strada da percorrere. Infatti le chitarre si intrecciano molto bene. Senza nulla togliere agli altri musicisti che ci hanno accompagnato nel corso degli anni, credo veramente – ma già lo dicevo durante la tournée – che questa sia la nostra formazione migliore.

5) Infatti, a nostro avviso, il sound è rimasto ovviamente quello tipico dei Massimo Volume, ma si è ancor più “personalizzato”, è ancor più denso, profondo e sviluppato proprio grazie a fraseggi chitarristici sempre più oliati che funzionano e si incastrano alla perfezione.
Sì, perché se penso a Stanze lì sicuramente era più evidente il debito che avevamo con la scena americana – ti parlo dei Fugazi, quella scena pre-post rock -, poi c’è stato il recupero dei minimalisti – Steve Reich, La Monte Young, anche Philip Glass stesso -, mentre adesso il punto di riferimento erano i nostri dischi precedenti, il nostro stile, quindi si sentono ancora dentro che le chitarre in alcuni brani risentono ancora del minimalismo, i pezzi pesi risentono ancora dell’influenza americana, però siamo noi, insomma.

06) Qual è il vostro vecchio album che più si avvicina a Cattive abitudini? Dal punto di vista delle sonorità sembrerebbe Da qui…
Anche per me. Perché come Da qui crea un paesaggio più mosso degli altri lavori, dove ci sono delle punte elettriche e poi dei brani anche molto dilatati. Forse anche come poetica di testi è quello che ci si avvicina di più, quello forse più rivolto verso l’esterno. Che poi fra l’altro è anche il mio dico preferito Da qui.

07) Anche il mio.
(ride compiaciuto) Mi fa piacere che sia quello.

08) Proprio il tempo, questo “nostro monotono sublime” definizione che hai preso in prestito dal poeta Robert Lowell, sembra essere il filo rosso che lega le 12 nuove tracce. Ce ne parli?
Sicuramente nel disco c’è un’ossessione del tempo. Del tempo che passa. Del poco tempo che si ha a disposizione anche per fare le cose. Se penso proprio alla scrittura del disco è stata fatta soprattutto nei ritagli di tempo. Quasi tutti i pezzi li ho scritti in un periodo in cui stavo da solo in casa con mia figlia, dovevo badare a mille cose, dovevo star dietro a lei. E quindi per questo è un disco che ha fretta. È vero. Nonostante le canzoni abbiano momenti dilatati e un minutaggio decisamente elevato che non è poi tanto nella nostra tradizione. E ciò credo che sia stato anche positivo perché tornando poco sui pezzi e con l’aggiunta di una registrazione analogica in presa diretta a me sembra più comunicativo. Credo che la parola “tempo” sia ripetuta in quasi tutti i pezzi. E a quarantatré anni forse ci fai un po’ i conti.

09) Era proprio la domanda seguente: a 43 anni, nel pieno della maturità artistica, ti senti arrivato all’età giusta per fare i conti con il tempo passato?
Ehhh… non so se è l’età giusta, però attraversando in qualche maniera la maturità artistica l’idea del tempo che si accorcia sempre di più mi spaventa molto. Un po’ di tempo fa lessi un’intervista a Ottavia Piccolo, l’attrice, e lei diceva pressapoco “certe volte l’esistenza mi sembra come una prova generale e mi stupisco che non ci sia poi un’altra possibilità dove tutte le cose verranno fatte meglio, dove questa è solo una prova di quello che sarà”. Personalmente ho convissuto per tanto tempo con l’idea che poi tutto sarebbe rifatto meglio. Si pensa che la maturità ti porterà una consapevolezza maggiore di quello che stai facendo, una profondità maggiore questo e quell’altro… poi invece alla fine ti rendi conto che quello che sai fare è questo, lo stai facendo e un’altra occasione non ci sarà. Ciò è abbastanza traumatico, insomma.

10) Il presente, invece, entra nell’album? E del presente, invece, che percezione hai sia dal punto di vista personale sia pubblico, politico? Nell’album la canzone che più sembra “criticare” questi folli tempi è Fausto (“ho visto le menti migliori della mia generazione mendicare una presenza al varietà del sabato sera, il loro aspetto trasgressivo e il loro pallore si sposava alla perfezione con l’argomento della puntata”)?
In vent’anni di carriera forse quello è l’unico accenno polemico e vagamente politico che abbia mai inserito in uno mio testo. È difficile giudicare il presente nel momento in cui lo vivi. E quindi rimane sempre uno sguardo distorto. Bisognerebbe far passare un po’ di anni e poi rivedere questo inizio di Millennio, con un’ottica diversa. Però se parliamo da un punto di vista personale io son soddisfatto, nonostante una vita appesa a un filo per l’amor di dio, parlo dal punto di vista economico, però il fatto che comunque riesco in qualche maniera a vivere con le idee che mi vengono in mente, che ho abbracciato la vita da artista – che poi non sono tantissimi anni che sono un artista a tempo pieno, perché negli anni passati con già i Massimo Volume che esistevano ho sempre lavorato, sgomberando le cantine, nelle cucine dei ristoranti… – quindi da un punto di vista personale direi soddisfatto. Da quello più generale mi sembra sempre quello più o meno… forse ogni epoca si porta dietro un’idea che tutto è peggiorato… a me sembra sempre quello alla fine. Il mondo mi sembra più o meno quello di sempre.
Quello che sta dietro a quella frase è che sento un po’ la necessità di una scena identitaria… Nei Novanta c’era una scena – che poi si portava dietro il retaggio dei 70 e in parte degli 80 – dove c’erano delle scelte precise, che erano in qualche maniera anche politiche su dove si andava a suonare, sulle etichette.. che dava sicuramente un’identità maggiore. Poi è vero che tutto quello era anche in eccesso anche ideologicamente palloso, e a un certo punto però, secondo me, ci si è lasciati troppo andare. In questo senso mi piacerebbe che si tornasse a dire anche di no. Perché poi non ho mai creduto nell’idea che il sistema si combatte dall’interno, mi è sempre sembrato piuttosto ipocrita. Però sento anche la necessita per noi… ti direi che a livello quasi di marketing, promozionale, di creare una scena che sia forte e che non si venda a qualsiasi cosa. Mi sembra che alla fine per cento lire in più uno accetta tante cose che sarebbe meglio non accettasse. Sono stato piuttosto confuso in questo passaggio. Però… ecco, spesso ti ritrovi anche… entri in una casa editrice, una casa discografica e parlo soprattutto delle major dove non hai punti di riferimento, dove senti di essere un estraneo… però si accetta perché riescono a proporti un contratto che è più vantaggioso e perché pensi che ci sarà poi una promozione, un ufficio stampa che lavorerà meglio… secondo me non funziona più questa modalità. Secondo me anche il nostro pubblico anche la gente ha bisogno di identificarsi in maniera maggiore in quello che stai facendo e occorre prendere strade diverse e tornare a una scena indipendente. Al momento ci credo molto, anche se in passato l’ho criticata… perché a un certo punto mi sembrava che la scena indipendente fosse tale e quale a quella delle major ma con meno quattrini. Però sento questa necessità identitaria in questo momento.

11) A tal proposito, l’album esce per La Tempesta, un’etichetta che in questi ultimi anni sta valorizzando la musica italiana, quasi creando – per l’appunto – una “scena” musicale.
Guarda, noi siamo arrivati da poco, anche se con Enrico Molteni e Davide toffolo ci conosciamo da tempo… noi ci siamo trovati molto bene da un punto di vista umano e mi sembra proprio uno di quei progetti che va da quella parte… e che son stati anche premiati per questo. Quest’estate ero a Ferrara per La Tempesta sotto le stelle: c’erano 5mila persone ed era una serata a pagamento… mi sembra che anche la gente abbia voglia di questo. Basta fare i dischi con quelle cariatidi del mondo delle major che non sanno quello che fai, che vengono in studio e ti dicono questo pezzo mi sembra un brano degli ZZ Top. Non è per snobismo che lo dico, credimi. Dipende anche dal fatto che se tu sei molto forte e hai una bella crosta addosso e riesci ad utilizzarli solo per quello che loro possono darti forse va bene, puoi starci. Però se sei cresciuto in un ambiente diverso dove conta anche il contatto umano, conta anche un “sentirsi”, finisce per essere un rapporto molto frustrante.

12) Che effetto ti fa vedere i Massimo Volume pubblicati oggi insieme a band e artisti giovani (penso a Le luci della centrale elettrica, gli Altro, Fine Before You Came) che negli anni 90 sono cresciuti a pane e Massimo volume o addirittura che li hanno ascoltati successivamente negli anni 2000 dopo il vostro scioglimento?
(ride) Bene, bene, bene (ripete una sfilza di bene). Perché poi c’è un grosso affetto, un grosso rispetto. Noi siamo stati anche fortunati vivendo in questo periodo storico, dove non c’è più una scena che si mangia quella precedente, perché magari fosse stato così noi saremmo stati recuperati tra vent’anni. Invece c’è stato questo passaggio, chiamiamolo questo sapere ma non voglio esagerare, che i gruppi nuovi si sono formati anche sui nostri dischi e quindi c’è ancora spazio per noi. Da questo punto di vista davvero siamo stati fortunati. Però in una certa maniera La Tempesta mi ricorda anche la Mescal del primo periodo dove c’era anche un’identità artistica precisa, il cantato in italiano, gruppi il più possibile originari… infatti se vedi anche il catalogo della Tempesta le proposte sono anche molto diverse. Questo crea proprio una forza perché adesso.. cioè un’etichetta che… proprio perché un disco è fatto da loro ha più credenziali di qualcun altro. E questo paga. Poi noi ci siamo trovati prima ancora di incidere l’album, loro erano molto contenti e orgogliosi di farlo, ci siamo trovati d’accordo dal punto di vista economico, c’è stato proprio un discutere di come si potevano spendere i pochi soldi che c’erano a disposizione. Una comunicazione che era proprio quella che ci serviva.

13) Spostiamoci sui testi, quanto c’è di personale nelle tue liriche – come sempre tragicamente bellissime?
Molto. Molto. Molto. Alla fine, vabbè, si rischia il banale, però è vero che quello che scrivo è quello che mi succede intorno, quello che mi colpisce, quello che comunque penetra attraverso la scorza con la quale affronti il quotidiano. La scelta dei temi non è mai molto difficile perché non so in quale maniera una vicenda un personaggio riesca a penetrare questa scorza, che è del vivere del vivere in maniera un po’ così distratta che purtroppo è quello che la quotidianità e la vita di tutti i giorni impone, il difficile poi è la messa a punto, quella che mi prende più tempo. Però questa volta, forse, in una maniera che ha del miracoloso, come poche volte in passato mi è successo, è capitato che il pomeriggio scrivevamo la musica e due giorni dopo arrivavo in sala prove con il testo. E ti diro di più: quando noi abbiamo cominciato a lavorare al disco e iniziavano ad esserci tre o quattro parti musicali io mi son trovato terrorizzato all’idea di dover scrivere i testi… perché era dal 2004 (dall’esperienza con gli El Muniria) che non scrivevo testi… e pensavo anche io adesso li illudo e poi a un certo punto mi svelo e dico “ragazzi, io non ce la faccio” (ride). Questa era la mia idea. Poi ho tenuto botta, e dopo i primi due testi per i quali ho recuperato un paio di frasi che c’avevo nel cassetto si è aperto qualcosa. Forse perché ho letto anche molta poesia, in realtà ho anche rubato… oltre a Lowell c’è Ferlinghetti, c’è Auden… Ad esempio per Mi piacerebbe ogni tanto averti qui mi ha folgorato una poesia di Montale (“Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale”, una poesia dedicata alla moglie che era morta da poco). Però da un punto di vista di testi, i riferimenti sono molti. C’è anche Leonard Cohen.

14) Una curiosità: Mi piacerebbe ogni tanto averti qui è dedicata a tuo padre, vero?
Sì, è su mio padre. Quello è un pezzo che veramente in sala prova l’abbiamo suonato due volte e poi siamo andati a registrarlo… in quel caso veramente, non per faciloneria, ma proprio perché ci siamo detti più lo suoniamo e più finiamo per regimentarlo e più perde di fascino. Infatti, l’abbiamo buttato giù così, dopo sole tre o quattro prove.

15) Dal punto di vista delle liriche ci sono dei “ritorni” letterari? Personaggi, luoghi?
C’è Leo, che è citato anche nei credits ne La sabbia dell’oceano che è proprio l’adattamento di una mail che lui mi spedì tempo fa quando per un periodo ha vissuto in Nuova Zelanda.. Di personaggi del mio immaginario (ride) c’è lui. Leo ritorna anche in Litio, che da un certo punto di vista può esser considerata come la Fuoco fauto dieci anni dopo.

16) In una delle canzoni più belle dell’album, Le nostre ore contate, nella quale è contenuto pure il titolo dell’album, canti “E così veniamo avanti / simili in tutto a quelli di ieri / aggrappati a un’immagine / condannata a descriverci”. Naturalmente è una provocazione, ma è una definizione che si può accostare anche ai Massimo Volume come se il tempo non fosse mai passato, oppure dal 1999 ad oggi la band sia evoluta?
Il pezzo parla del mio rapporto con Manuel Agnelli. Però spero che possa anche venir letta in maniera più universale. Parlando con lui è venuto fuori che entrambi abbiamo sentito questo peso. Da una parte dell’immagine pubblica, nel suo caso molto più pressante di quello che mi riguarda, la mia immagine pubblica è molto più limitata della sua. Però in qualche maniera è anche – senza spiegare troppo il testo – qualcosa che ci ha salvato e che ci tiene lì… C’è da una parte un debito nei confronti di questa immagine che noi ci siamo costruiti e che in parte non ci appartiene più e in parte non ci è mai appartenuta. Dall’altra c’è invece una forma di rigetto anche. In realtà non lo sa nessuno che la canzone parla di Manuel, se non lui a cui ho fatto sentire il pezzo.

17) Da che nasce il titolo Cattive abitudini?
Il titolo del disco è sempre il frutto di una serie di mediazioni per cui suoni bene, sia suggestivo, che in qualche maniera racchiuda il senso dell’album. A me piace. Anche perché credo che molti dei personaggi racchiusi nell’album siano affetti da cattive abitudini. È anche una definizione abbastanza aperta che riguarda sia una persona che si rinchiude dentro casa e non esce più, che affronta la vita con le tapparelle abbassate, o può essere molto più banale circa gli eccessi. Alla fine si cerca di convivere sempre con le proprie cattive abitudini, che alle volte diventano anche qualcosa che caratterizza il proprio stile, qualcosa che serve anche a trovare il momento di creatività. C’è un’ambiguità di fondo che alla fine la trovo accattivante. Poi non sapevo che esisteva anche un gruppo punk che si chiama Cattive abitudini (ride di gusto) (ex Peter Punk).

18) C’è una canzone del nuovo album che ti sta a cuore particolarmente?
No, le amo tutte come i figli. Anche se in qualcuna ci trovo dei difetti… amo anche i difetti. Ho un grosso affetto verso tutte. Poi sai col tempo – se si va avanti – tra 4 o 5 anni in fase di decisione della scaletta per i concerti lì avviene una selezione naturale per cui alcuni pezzi vengono un po’ abbandonati. Però adesso che sono dei neonati li amo tutti.

 

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2 Risposte to “Massimo Volume: intervista a Emidio Clementi”

  1. Francesco Giubbilini Says:

    Grande Andre!
    Compliemnti per l’intervista e per il tuo libro!
    Cattive Abitudini l’ho ascoltato poco, solo 2 canzoni, (che mi sono piaciute) ma non bene.. devo trovare il tempo per gustarmelo ammodo!!!
    Del libro che uscirà sui Massimo Volume sai nulla?
    Mi piacerebbe andare alla loro prima tappa del tour, mi pare Ferrara, dove presenteranno anche il libro…
    A gennaio poi forse si va in Marocco, e se nel giro tornasse bene mi piacerebbe andare a Tangeri, alla stanza 218, dello Shalimar Hotel 🙂
    Ciauzzz!

  2. Andrea Provinciali Says:

    grande france… felice che ti sia piaciuta l’intervista ai “tuoi” massimo volume 🙂
    il libro a loro dedicato è molto bello, tutto scritto in prima persona dai componenti della band a mo’ di testimonianze. davvero ottimo.
    Domenica prossima ci sarà la loro prima a ferrara… eh, sarebbe bello andarci, ma mi sa che me li vedrò a roma il 2 dicembre. nel caso fammi sapere come è stato.

    Il marocco, lo sai, è il posto più bello che al momento abbia mai visto… naturalmente se andate non potete perdervi La stanza.
    a presto, magari lunedì prox a calcetto, che è festa.

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